Il diabete: generalità e complicanze
Il Diabete Mellito è una entità nosografia che comprende un gruppo di disordini metabolici a diversa eziologia caratterizzato da iperglicemia cronica associata ad alterazioni del metabolismo glucidico, lipidico e proteico (Organizzazione Mondiale della Sanità).
Le alterazioni metaboliche del diabete mellito dipendono da un deficit relativo o assoluto dell'insulina secondario a ridotta disponibilità di questo ormone, o ad un resistenza alla sua normale azione, o anche ad una combinazione di entrambi questi aspetti. Caratteristica distintiva del diabete mellito è l'iperglicemia, alla quale, con il passare del tempo, tendono ad associarsi alcune complicanze peculiari: la macroangiopatia, una aterosclerosi che interessa il distretto coronario, epiaortico e periferico, la microangiopatia (alterazioni del microcircolo che si localizzano a livello della retina, del rene e del sistema nervoso periferico con coinvolgimento delle fibre motorie, sensitive e vegetative). Le complicanze sono largamente dipendenti dall'entità dell'iperglicemia e dal
suo tempo di persistenza, per cui è fondamentale non solo garantire adeguate cure mediche ma bisogna anche educare il paziente alla gestione della malattia nel quotidiano, essendo essa stessa influenzabile da variabili come attività fisica, alimentazione, stress etc.
Il diabete è una condizione clinica complessa, che richiede una pluralità di interventi che vanno oltre il semplice controllo dei livelli glicemici. Esiste un ampio corpo di evidenze che supporta la validità e l'efficacia di un approccio integrato nel migliorare le condizioni cliniche del paziente diabetico, sia a breve che a lunga distanza, riducendo il rischio di comparsa delle complicanze secondarie. (1-4)
È noto da tempo che il diabete mellito di tipo 2, oltre che da predisposizione genetica, dipende in larga misura da fattori ambientali e comportamentali quali l'obesità, la sedentarietà, un'alimentazione eccessiva e qualitativamente inappropriata. Si calcola che da 124 milioni di soggetti diabetici presenti nel mondo nel 1997 si passerà, nel 2010 a più di 220 milioni e
nel 2025 a circa 300 milioni. (5). Il maggior imputato di tale crescita viene individuato nelle rapide modificazioni delle abitudini di vita. Il diabete di tipo 2 deve pertanto essere considerato una malattia che, in buona parte, si può prevenire mediante la correzione dei principali fattori di rischio, in particolare con la riduzione dell'obesità, l'educazione alimentare e l'attività fisica. Va sempre ricordato che modificare questi fattori significa ridurre l'incidenza o ritardare l'insorgenza di una patologia che ha riflessi negativi sulla morbidità e la mortalità, soprattutto cardiovascolare, delle persone colpite e che ha conseguenze economiche rilevanti sia a livello individuale che sociale.
Addirittura nell'ultimo decennio si è assistito a livello mondiale ad un aumento allarmante della prevalenza di diabete di tipo 2 nei bambini, che hanno come caratteristica comune una marcata obesità, ed una familiarità per diabete tipo 2. Questo quadro è tipico nei paesi piu' sviluppati ma caratterizza soprattutto gruppi etnici minori. L'elemento più preoccupante è dato dal fatto che la giovane età di esordio della malattia diabetica espone questi soggetti ad un elevato rischio di complicanze a lungo termine.
Epidemiologia
Circa 13 milioni di persone negli Stati Uniti hanno una diagnosi di diabete e altri 5 milioni vengono stimati casi non diagnosticati. Circa il 10% è affetto da diabete di tipo 1 e la restante percentuale da diabete di tipo 2. Il diabete di tipo 2 ha una maggiore prevalenza in specifici gruppi etnici come i latino-americani, gli americani africani, e gli asiatici/isole del Pacifico (4).
Nel complesso, in Italia si calcola la presenza di circa 3 milioni di persone affette da diabete noto, facendo riferimento ad una prevalenza stimata di circa il 5%.
Anche in Italia si è registrato il dato allarmante della presenza, a livello nazionale, di oltre 200 mila soggetti colpiti nella fascia d'età compresa tra i 25 ed i 45 anni.
Quindi anche se il diabete di tipo 2 ancora si presenta più comunemente in adulti con età di e/o maggiore di 40 anni, l'incidenza della malattia sta aumentando negli adolescenti e nei giovani adulti, soprattutto a causa dell'aumento della prevalenza di obesità nell'età infantogiovanile. (6)
I fattori di rischio principali per il diabete di tipo 2 sono:
- età (> 45 anni);
- obesità (peso > del 120% del peso corporeo ideale);
- storia di diabete di tipo 2 familiare (in un parente di 1° grado, genitore, fratello);
- storia di alterata tolleranza glucidica al glucosio (IGT) o di alterato glucosio a digiuno (IFG);
- ipertensione arteriosa (>140/90 mmHg) o dislipidemia;
- storia di diabete gestazionale (GDM);
- condizione di insulino-resistenza come ad es. la sindrome dell'ovaio policistico (PCOS)
Classificazione
Nel 1997, l'ADA ha pubblicato i nuovi criteri diagnostici e classificativi (7); nel 2003, sono state attuate alcune modificazioni per la diagnosi di alterata glicemia a digiuno (IFG) (8).
L'attuale classificazione del diabete include 4 classi cliniche:
- diabete di tipo 1 (dovuto a distruzione beta-cellulare, deficit insulinico assoluto in soggetti geneticamente predisposti, probabilmente in rapporto all'intervento di uno o più fattori ambientali precipitanti)
- diabete di tipo 2 (dovuto a un difetto della secrezione insulinica, che può progressivamente peggiorare nel tempo, associato ad una sottostante condizione di insulino-resistenza)
- altri tipi specifici di diabete (dovuti ad altre cause, ad esempio difetti genetici della funzione beta-cellulare, difetti genetici nell'azione insulinica, malattie del pancreas esocrino, farmaci o sostanze chimiche)
- diabete gestazionale (GDM) (diagnosticato durante la gravidanza).
Il diabete di tipo 1 è causato dalla progressiva distruzione autoimmune delle cellule beta delle isole di Langerhans del pancreas. La malattia esordisce in oltre il 90% dei casi in età inferiore a 20 anni ed è caratterizzata da insulino-dipendenza, cioè dallo sviluppo di chetosi in assenza di insulina esogena, tanto che i termini di diabete giovanile, di diabete mellito insulino-dipendente (IDDM) e quello di diabete tipo 1 sono stati e sono ancora utilizzati in maniera equivalente. In realtà la malattia può manifestarsi a qualsiasi età ed esistono delle forme a lenta insorgenza, che in fase iniziale non necessitano di insulina. L'elemento distintivo di questo tipo di diabete è pertanto il meccanismo patogenetico immuno-mediato.
L'esordio della malattia è di solito acuto; tuttavia la distruzione delle cellule beta avviene durante un periodo preclinico di durata variabile, nel corso del quale il numero delle cellule va progressivamente riducendosi e la quantità di insulina diventa insufficiente per il fabbisogno dell'organismo.
Si ritiene che il processo autoimmune responsabile della distruzione delle cellule beta si inneschi in soggetti geneticamente predisposti, probabilmente in rapporto all'intervento di uno o più fattori ambientali precipitanti. A ciò fa seguito la comparsa di alterazioni immunitarie, quindi di alterazioni metaboliche iniziali fino all'esordio della malattia. (9)
Tali fasi della storia naturale del diabete di tipo I sono così schematizzabili:
fase 1: suscettibilità genetica fase 2: evento precipitante
fase 3: presenza di autoanticorpi e di linfociti T autoreattivi
fase 4: presenza di anomalie metaboliche iniziali
fase 5: esordio clinico della malattia Tra le complicanze croniche del dia-
bete tipo 1 sono quelle microvascolari (retinopatia, nefropatia, neuropatia) ad essere maggiormente rappresentate.
Il Diabetes Control Complication Trial (DCCT) ha dimostrato che, nel diabete di tipo 1, il rischio di complicanze microvascolari può essere ridotto mantenendo livelli glicemici vicini alla norma attraverso una terapia insulinica intensiva (10).
Il diabete di tipo 2 è una malattia metabolica cronica che deriva da difetti sia nella secrezione che nell'azione dell'insulina. Un'aumentata sintesi epatica di glucosio in presenza di iperinsulinemia costituisce la causa principale dell'iperglicemia a digiuno; mentre dopo i pasti, l'insufficiente soppressione della sintesi epatica di glucosio da parte dell'insulina e la ridotta captazione di glucosio insulino-mediata a livello del muscolo contribuiscono nella stessa misura all'iperglicemia post-prandiale. La prevalenza del diabete di tipo 2 nel mondo è aumentata enormemente negli ultimi vent'anni. Responsabili di tale epidemia sono la riduzione di attività fisica, l'aumento dell'obesità e i cambiamenti nelle abitudini alimentari (4, 11). I meccanismi alla base dell'alterato metabolismo glucidico nel diabete di tipo 2 sono i seguenti: dopo ingestione di glucosio, il mantenimento della normale tolleranza glucidica dipende da tre eventi che devono intervenire in maniera strettamente correlata: 1) stimolazione della secrezione insulinica; 2) soppressione insulino-mediata della produzione di glucosio endogeno (soprattutto a livello epatico) come risultato dell'iperinsulinemia; 3) captazione insulino-mediata del glucosio da parte dei tessuti periferici, principalmente dal muscolo.
Nei pazienti con diabete di tipo 2 e iperglicemia a digiuno stabilizzata, la produzione basale epatica di glucosio è eccessiva nonostante i livelli di insulinemia siano aumentati di 2-4 volte (12). Ciò suggerisce inequivocabilmente una resistenza del fegato all'insulina e tale dato è sostenuto dall'alterata capacità dell'insulina a sopprimere la sintesi epatica di glucosio (13). L'accelerata gluconeogenesi rappresenta la principale alterazione causa dell'aumentata produzione basale di glucosio da parte del fegato (14). L'aumentata sintesi epatica di glucosio è strettamente correlata con l'iperglicemia a digiuno (14-15).
Nei pazienti con diabete di tipo 2, il muscolo è insulino-resistente (13,15,16). Difetti nella funzione dei recettori dell'insulina, nel meccanismo di traduzione del segnale, nel trasporto e nella fosforilazione del glucosio, nella sintesi di glicogeno e nell'ossidazione del glucosio, sono tutti fattori che contribuiscono all'insulino-resistenza nel muscolo (15).
In risposta ad un pasto la capacità endogena di secernere insulina, volta a favorire la captazione di glucosio da parte del muscolo, è notevolmente compromessa (17,18) e l'insulino-resistenza del muscolo e l'alterata soppressione della sintesi epatica di glucosio contribuiscono in modo equivalente all'aumento eccessivo della glicemia post-prandiale (18).
Anche l'alterata secrezione di insulina gioca un ruolo nella patogenesi dell'intolleranza glucidica nei pazienti con diabete di tipo 2 (19). Tutti i pazienti con diabete di tipo 2, con iperglicemia a digiuno, mostrano un'alterata secrezione insulinica. Di fronte all'insulino-resistenza e alla presenza di iperglicemia, anche livelli elevati di insulinemia sono insufficienti. In sintesi, i pazienti con diabete di tipo 2 sono caratterizzati da un difetto sia nella secrezione che nell'azione dell'insulina .
La glicemia a digiuno (FPG) è il test preferito per la diagnosi di diabete in bambini e adulti non in gravidanza. L'uso della HbA1c per la diagnosi di diabete non è raccomandato.
I criteri per la diagnosi del diabete nell'adulto non in gravidanza sono presentate in tabella 1. Tre modalità sono disponibili per la diagnosi di diabete e ognuna, in mancanza di inequivocabili sintomi di iperglicemia, deve essere confermata in un giorno successivo.
Criteri per la diagnosi del diabete:
1. Sintomi di diabete e una glicemia casuale ≥ 200 mg/dl. Per casuale si intende una glicemia effettuata
durante la giornata indipendentemente dall' assunzione di cibo. I classici sintomi del diabete
includono: poliuria, polidipsia e inspiegabile calo ponderale.
2. Glicemia a digiuno ≥ 126 mg/dl. Il digiuno è definito da almeno 8 ore senza ingestione di cibo.
3. Glicemia a 2 ore ≥ 200 mg/dl durante un OGTT. Il test dovrebbe essere effettuato come consigliato
dalla WHO, utilizzando un carico orale di 75 g di glucosio anidro sciolto in acqua. L'OGTT non è
consigliato per la routine diagnostica, ma dovrebbe essere utilizzato quando è presente iperglicemia
a digiuno, quando il diabete è sospettato nonostante un valore glicemico a digiuno nella
norma.
Complicanze
La cura del diabete insulinodipendente è iniziata nel 1922, con la scoperta dell'insulina, ma ci sono voluti altri 80 anni per arrivare a delle conclusioni solide sui rapporti fra iperglicemia e complicanze. Dagli anni '20-'30, l'insulina ha salvato milioni di vite umane.
Con l'allungarsi della vita, si sono rese manifeste le complicanze croniche della malattia legate al persistere nel tempo della iperglicemia. La relazione netta tra iperglicemia e complicanze croniche, anche se sospettato, si è resa evidente sperimentalmente solo nel 1993 con lo studio DCCT che ha dimostrato nel diabete di tipo 1, l'efficacia del buon controllo glicemico (HbA1c <7,0%) nel prevenire le complicanze croniche microangiopatiche come retinopatia, neuropatia e nefropatia fino al 90% dei casi. (10). Nel 1998, lo studio UKPDS ha dimostrato che nel diabete di tipo 2 il buon controllo glicemico dà benefici simili al diabete di tipo 1 per quanto riguarda la prevenzione delle complicanze microvascolari. In aggiunta l'ottimizzazione del complesso metabolico ha un'azione favorevole, anche sui vasi del cuore, cervello, arti inferiori. (20). Nel 2005, lo studio EDIC ha dimostrato che nel diabete di tipo 1 il buon controllo glicemico previene ictus, infarto, patologie arteriose agli arti inferiori. (21).
Se si analizzano i risultati di questi 3 studi insieme, ne viene fuori il messaggio che il buon controllo glicemico è fondamentale nel diabete di tipo 1 e in quello di tipo 2, per la prevenzione delle complicanze croniche microe macroangiopatiche. È infatti noto che:
- le complicanze sono prevenibili se la cura che mantiene una HbA1c<7,0% è iniziata precocemente;
- questa cura deve essere fatta a tutte le età, soprattutto nel bambino per proteggerlo dai rischi a lungo termine;
- non è tanto importante come si mantiene la HbA1c <7,0%, ma il fatto che comunque la HbA1C sia <7,0%. Ad esempio, schemi di terapia diversi possono essere validi, purchè la HbA1c sia alla fine<7,0%.
Le complicanze del diabete si distinguono in acute e croniche, e ad esse sono correlate la mortalità e la morbosità associate al diabete.
Complicanze acute
Le complicanze acute della patologia diabetica sono i comi chetoacidosico, iperosmolare non chetoacidosico e quello latticoacidosico (22). Non vengono trattate in questa sede e si rimanda la lettura in altri volumi.
Complicanze croniche
Il diabete rappresenta la principale causa di cecità negli adulti con età compresa tra i 20 e i 74 anni, come anche la principale causa di amputazioni non traumatiche agli arti inferiori e di malattia renale in fase terminale (ESRD).
Le complicanze croniche, sempre presenti nel diabete di lunga durata, si dividono in complicanze di tipo macroangiopatico (aterosclerosi coronaria, carotidea, e dei vasi periferici) e di tipo microangiopatico (retinopatia, nefropatia e neuropatia).
L'American Heart Association, tra le complicanze macrovascolari del diabete mellito, comprende (23) la cardiopatia ischemica, l'ictus cerebrale, arteriopatia obliterante periferica, la nefropatia, la retinopatia, la neuropatia e la cardiomiopatia. Mentre le complicanze macrovascolari sono più frequenti nel diabete di tipo 2, quelle microvascolari esprimono maggiormente la loro presenza nel diabete di tipo 1.
Le complicanze croniche del diabete incidono soprattutto sull'aspettativa di vita dei pazienti. La mortalità annuale negli adulti diabetici è di circa il 5,4 %, il doppio dei non diabetici e la spettanza di vita è ridotta mediamente di 5-10 anni (24). Il rischio di morbilità e mortalità cardiovascolare è aumentato di due-tre volte nel diabete mellito di tipo 2 (due volte nell'uomo; quattro volte nella donna) ed è pari a quello dei non diabetici che abbiano già subito un infarto miocardico. Anche il rischio di ictus è aumentato di due-tre volte ed è superiore nella donna che nell'uomo (25).
La durata della malattia diabetica e la concomitante presenza di ulteriori fattori di rischio quali ipertensione arteriosa, fumo di sigaretta, dislipidemia, accresce l'evidenza delle manifestazioni vascolari; essa stessa è da considerarsi un fattore di rischio indipendente per malattia vascolare (23-24).
Complicanze microvascolari
Vi è una correlazione diretta tra durata del diabete, controllo glicemico ed espressione di danno microvascolare: una riduzione stabile dell'emoglobina glicosilata di un punto percentuale sia nel DM tipo 1 che di tipo 2 può ridurre nel tempo di oltre il 30% le complicanze microvascolari (24).
La microangiopatia dipende sia dalla durata dell'iperglicemia che dall'interazione con fattori genetici e ambientali: una volta raggiunto il punto di non ritorno, nemmeno un buon controllo metabolico è in grado di fare regredire la lesione potendo, al massimo, ritardarne la progressione. Il meccanismo esatto mediante il quale si determina la lesione non è ancora noto; tra le ipotesi più accreditate vanno segnalate:
l'attivazione della via dei polioli, che determina un accumulo di
sorbitolo intracellulare con conseguente alterazione dell'osmolarità e della permeabilità di membrana;
la glicosilazione non enzimatica, cui consegue la formazione degli AGE (Advanced Glycation End products) con alterazioni strutturali delle proteine che formano le membrane e conseguentemente modificazioni degli scambi tissutali.
Recentemente è stato suggerito che entrambe le vie metaboliche sono alterate in seguito all'accumulo di superossido mitocondriale, che quindi costituirebbe il primum movens della microangiopatia diabetica.
L'aumento cronico della glicemia oltre certi valori indurrebbe una condizione di infiammazione latente della parete dei vasi sanguigni. Sin dalle primissime fasi di sviluppo della malattia.(26); stime recenti riportano che, dopo 20-30 anni di malattia, circa il 70% dei pazienti affetti da diabete mellito tipo 1 ha sviluppato un qualche grado di retinopatia e che, dopo 10-15 anni, circa il 40% dei pazienti presenta nefropatia. La retinopatia e la nefropatia diabetiche rappresentano le principali cause, rispettivamente, di cecità e uremia nei pazienti di età inferiore ai 50 anni.
Retinopatia
È la più comune causa di cecità nella popolazione di età compresa tra i 2074 anni. La prevalenza della retinopatia è strettamente correlata alla durata del diabete. Un quinto dei pazienti alla prima diagnosi di diabete di tipo 2 ha una retinopatia, mentre nei diabetici di tipo 1 questa di solito non compare nei primi 5 anni di malattia. La retinopatia proliferante (PDR) con neovascolarizzazione secondaria all'ipossia (27) è la più frequente espressione della retinopatia nel diabetico di tipo 1, la maculopatia in quello di tipo 2. La gestione intensiva
del diabete, con raggiungimento di valori vicini alla normoglicemia, ha dimostrato, in ampi studi prospettici randomizzati, di prevenire e/o ritardare l'inizio della retinopatia diabetica (18-20). L'ipertensione arteriosa è un ben definito fattore di rischio per lo sviluppo di edema maculare ed è associato alla presenza di retinopatia diabetica proliferante (PDR).
La retinopatia diabetica è una lesione microvascolare caratterizzata da un ispessimento della membrana basale e da un'aumentata permeabilità dei capillari retinici. Negli ultimi decenni è stata stabilita la progressione della retinopatia diabetica con il riconoscimento di una fase non proliferativa (microaneurismi, microemorragie, essudati duri, essudati soffici, ischemia retinica focale e successivamente generalizzata) e una fase proliferativa (neoformazione di vasi, che dalla membrana limitante interna della retina, possono raggiungere il vitreo).
Epidemiologia della retinopatia diabetica Nell'ambito delle complicanze del diabete la retinopatia si colloca al primo posto e la sua prevalenza e severità sono strettamente correlate alla durata della malattia ed al grado del controllo
metabolico.
In epoca pre-laser, dopo 40 anni di diabete mellito tipo 1, il 16% dei pazienti aveva un visus inferiore a 1/10 e un altro 14% necessitava della lente di ingrandimento per leggere il giornale. Almeno il 30-50% dei pazienti affetti da diabete mellito risulta affetto da un qualche grado di retinopatia diabetica che, a sua volta, è ad alto rischio nel 10% dei casi. Ogni anno, negli USA, circa 250.000 diabetici sviluppano retinopatia ad alto rischio. Si può ragionevolmente affermare quindi che da 30.000 a 50.000 diabetici italiani/ anno si trovano nelle stesse condizioni.
In Italia risulta che la retinopatia sia la seconda causa di cecità nella popolazione generale, preceduta dalla cataratta e
seguita dalla miopia. Se l'analisi viene limitata all'intervallo di età 20-70 anni la retinopatia rappresenta la prima causa di cecità. Circa il 13% dei casi di cecità legalmente riconosciuta sono da attribuirsi a retinopatia diabetica.
La retinopatia è rara nei primi 2-3 anni dalla diagnosi nei pazienti con diabete tipo 1, mentre nei pazienti con diabete tipo 2, una proporzione consistente (fino al 30%) presenta retinopatia già al momento della diagnosi. Questo fatto è legato alla presenza, in quest'ultimi, di una condizione di iperglicemia già molto tempo prima della diagnosi.
Una grande quantità di studi ha ormai dimostrato in maniera inconfutabile il fondamentale ruolo eziopatogenetico dell'iperglicemia cronica nello sviluppo e nella progressione delle complicanze croniche nei pazienti affetti da diabete mellito. Da ciò consegue che il mantenimento della glicemia ad un livello il più possibile prossimo ai valori di normalità, fin dall'esordio del diabete, è una condizione insostituibile per prevenire la comparsa e la progressione delle complicanze micro e macroangiopatiche.
Storia naturale della retinopatia diabetica
La storia naturale della retinopatia diabetica passa attraverso 5 fondamentali eventi patologici:
- formazione di microaneurismi
- aumentata permeabilità vascolare
- occlusione vascolare
- formazione di neovasi e proliferazione di tessuto fibroso sulla superficie della retina e del disco ottico
- retrazione del tessuto fibroso e del vitreo.
Alla base della retinopatia diabetica si riscontra un diffuso danno dei capillari retinici, a carico dei quali si può riscontrare un ispessimento della membrana basale dell'endotelio, deposizione di materiale ialino e sclerosi della parete con perdite di periciti in numerosi tratti dei capillari. L'occlusione vascolare e l'aumentata permeabilità vascolare vengono ritenute le principali vie patogenetiche delle alterazioni retiniche. Le occlusioni vascolari causano aree di non perfusione retinica e dilatazioni focali e generalizzate dei vasi ancora pervi. Le dilatazioni focali assumono l'aspetto di microaneurismi, che spesso circondano le aree di non perfusione. I vasi dilatati sono fragili e permeabili alle molecole circolanti, facilitando così la formazione di emorragie e la fuoriuscita di lipidi e colesterolo fra le fibre nervose della retina, con formazione di essudati duri, a margini netti, di color giallo-brillante, mentre in corrispondenza delle aree ischemiche e delle zone infartuali si producono lesioni dall'aspetto cotonoso, bianco-grigiastre e a margini sfumati: i cosiddetti "cotton wools". Queste lesioni configurano il quadro della retinopatia background o non proliferante. Quando emorragie retiniche multiple si associano a lesioni cotonose ed irregolarità del decorso venoso con dilatazioni segmentarie e formazione di anse (venous beadings e loops) siamo di fronte ad una retinopatia pre-proliferante. Nelle fasi più evolute della malattia l'ischemia ingravescente è responsabile di una eccessiva risposta neovascolare con formazione di capillari a partenza dai vasi venosi della papilla o dalla retina periferica, neovasi che essendo molto fragili tendono a sanguinare facilmente, dando luogo ad emorragie preretiniche. I neovasi e le emorragie sono seguiti dallo sviluppo di tralci fibrosi, che per effetto della trazione esercitata sulla retina ne possono causare il distacco, portando così alla perdita permanente del visus.
La retinopatia diabetica viene clinicamente distinta in due stadi:
retinopatia non proliferante (lieve, moderata o severa);
retinopatia proliferante.
In aggiunta, l'edema maculare può essere presente in ognuno di questi stadi. Il primo stadio può a sua volta essere distinto in 3 sottogruppi:
lieve;
moderato;
severo.
Una accurata stadiazione della forma non proliferante è estremamente importante poichè la progressione verso la forma proliferante è strettamente correlata con il grado di severità del quadro non proliferante.
Il secondo stadio (retinopatia diabetica proliferante) è definito dalla comparsa di neovasi della retina e/o del disco ottico, da proliferazioni fibrovascolari ed emorragie vitreali.
Una cosa molto importante da tenere presente è che lesioni a carico della retina possono essere presenti senza che venga causato alcun disturbo visivo. Alterazioni della vista si manifestano solo quando viene interessata la macula (sede appunto della visione distinta). Ecco perché è importante che un soggetto affetto da diabete mellito si sottoponga a regolari controlli del fondo oculare.
Il fondo oculare può essere valutato con diverse metodiche:
l'oftalmoscopia diretta consente una buona valutazione del fondo oculare, anche se tale metodica non consente la valutazione della parte più periferica della retina;
la fotografia del fondo oculare (retinografia) consente di avere, per ogni paziente, una documentazione delle immagini retiniche; in tal modo è possibile confrontare le immagini tra loro e valutare l'effetto di un eventuale trattamento;
l'oftalmoscopia binoculare indiretta consente di esplorare il 100% della superficie retinica ed individuare le zone che necessitano di una più approfondita valutazione;
la fluorangiografia retinica, eseguita mediante iniezione endovenosa di fluoresceina sodica e fotografie sequenziali del fondo oculare consente di valutare eventuali alterazioni morfo-funzionali dei vasi retinici;
la tomografia ottica con radiazione a bassa coerenza (OCT) consente di dare una definizione simil-istologica della retina e in particolare dell'area maculare.
Terapia della retinopatia diabetica
Come per ogni malattia, soprattutto se è cronica come il diabete, la miglior cura è rappresentata dalla prevenzione. Il paziente con diabete mellito deve eseguire uno scrupoloso automonitoraggio della glicemia mediante strisce reattive adattando in tal modo la terapia in atto (dieta, ipoglicemizzanti orali, insulina) ed eseguire regolari controlli diabetologici in modo da mantenere un buon controllo glicemico, con valori di emoglobina glicosilata (HbA1c) prossimi ai valori di normalità (<7). Allo stesso modo deve tenere sotto stretto controllo tutti quei fattori che potrebbero contribuire a peggiorare la situazione retinica (ipertensione arteriosa, fumo di sigaretta, dislipidemie).
Nel momento in cui la retinopatia diabetica si è sviluppata ed ha raggiunto un grado tale da richiedere un intervento terapeutico mirato, la laser-terapia è l'unico presidio (soprattutto se eseguito precocemente) in grado di rallentarne o prevenirne la progressione. Il laser è un dispositivo in grado di emettere un raggio di luce (verde, rosso, infrarosso) che, diretto sulle lesioni retiniche che vogliamo trattare, mediante effetto termico, le coagula e le chiude. La Fotocoagulazione può essere focale: in questo caso spot di vari micron di diametro vengono indirizzati verso le zone che all'esame fluorangiografico appaiono essere le responsabili della diffusione del colorante.
La Fotocoagulazione può essere a griglia: in questo caso l'area da trattare è estesa e per questo motivo il trattamento viene condotto mediante spot non confluenti disposti a griglia. Non dobbiamo dimenticare che il trattamento laser nel caso venga condotto in presenza di retinopatia proliferante consente di combattere i fattori responsabili della neo-angiogenesi. La fotocoagulazione può essere poi estesa a tutta la retina (fotocoagulazione panretinica).
Nei casi in cui la retinopatia sia particolarmente evoluta, le emorragie abbiano interessato il vitreo e i processi fibro-proliferativi determinino trazioni sul piano retinico, può essere preso in considerazione l'intervento di vitrectomia.
nefRopatia
La nefropatia diabetica si manifesta nel 20-40% dei pazienti diabetici ed è la principale singola causa di insufficienza renale terminale (ESRD). Un'albuminuria persistente i cui valori sono compresi tra 30 e 300 mg/24 ore (microalbuminuria) è considerata lo stadio più precoce di nefropatia diabetica nel diabete tipo 1 e un marker per lo sviluppo della nefropatia nel diabete di tipo 2 (28). E' correlata a un incremento del rischio cardiovascolare e della mortalità di entrambi i tipi di diabete (24). I pazienti con microalbuminuria che progrediscono verso una macroalbuminuria (>= 300 mg/24 ore) probabilmente andranno incontro nell'arco di alcuni anni (29) ad un progressivo declino della funzione renale con necessità di emodialisi o di trapianto di rene. Le espressioni istopatologiche sono due: la diffusa con ispessimento della membrana basale e dello strato mesangiale glomerulare, e la nodulare con accumulo di materiale PAS positivo alla periferia del glomerulo stesso (sindrome di Kimmelstiel-Wilson).
Per il diabete di tipo 1 l'incidenza massima della complicanza è del 5 % annuo 5-15 anni dopo la diagnosi di iperglicemia; successivamente essa diminuisce progressivamente fino all'1% annuo nei diabetici da più di 40 anni. La prevalenza totale nel diabete di tipo 1 è del 50%. Nel diabetico di tipo 2 la prevalenza della proteinuria è del 7% nei pazienti con diagnosi inferiore a 5 anni e circa il 30% in quelli con diagnosi superiore a 25 anni. L'evoluzione verso l'insufficienza renale terminale si riscontra nel 75% dei diabetici di tipo 1 nefropatici entro 15 anni dalla diagnosi di proteinuria e nel 17% nei diabetici di tipo 2 con la stessa durata di malattia.
La patogenesi della nefropatia diabetica è complessa; infatti, pur essendo indiscusso il ruolo del controllo metabolico nel conferire il rischio di nefropatia, numerosi studi suggeriscono l'esistenza di una predisposizione genetica, peraltro ancora mai definita.
La nefropatia diabetica è responsabile non solo dell'insufficienza renale terminale (ESRD), ma anche di un incremento significativo del rischio cardiovascolare in questa popolazione. Nei Paesi industrializzati, fra i pazienti che iniziano la terapia sostitutiva (dialisi o trapianto), la percentuale di diabetici è andata progressivamente aumentando nel corso degli ultimi anni, tanto che la nefropatia diabetica è oggi la causa più frequente di ESRD.
Negli USA, attualmente, il 44% dei pazienti con ESRD è affetto da diabete. In Italia, la prevalenza di pazienti diabetici in terapia sostitutiva è di 9.1 %, con un progressivo incremento nel biennio 1995-96 (rispettivamente 10.2 e 12.4%). L'incidenza massima del trattamento sostitutivo è osservabile nella fascia di età dai 65 ai 74 anni. Tali dati, forniti dal Registro Italiano di Dialisi e Trapianto, sono inferiori a quelli medi europei e meno di un terzo di quelli riportati nella popolazione bianca nordamericana; è comunque prevedibile un ulteriore incremento nel corso dei prossimi anni anche nelle nostre popolazioni.
La diagnosi di nefropatia diabetica è una diagnosi di esclusione. È pertanto fondamentale escludere tutte le altre possibili cause di albuminuria patologica, prima di porre diagnosi di nefropatia diabetica. Questo è particolarmente vero nel paziente con Diabete di tipo 2 senza retinopatia diabetica concomitante.
È necessario focalizzare l'attenzione sulla microalbuminuria perché è il primo segno di danno renale e di rischio di malattia cardiovascolare
È importante monitorare nei pazienti diabetici con microalbuminuria, i seguenti parametri: HbA1c, pressione arteriosa, lipidi, creatininemia, e le altre complicanze (retinopatia, macroangiopatia, neuropatia)
Nel diabete di tipo 1 lo screening per la microalbuminuria deve essere iniziato dopo 3 anni dall'insorgenza e dopo i 12 anni di età, nel diabete di tipo 2, invece, alla diagnosi di diabete.
Storia naturale
La storia naturale della nefropatia diabetica è stata dettagliatamente descritta nel diabete di tipo 1, mentre per quanto riguarda i pazienti con diabete tipo 2, che pure rappresentano la maggioranza dei soggetti diabetici con nefropatia, sono disponibili informazioni meno dettagliate (30).
In un primo stadio, della durata media di 10 anni dalla diagnosi di diabete, si possono sviluppare importanti lesioni strutturali renali, prevalentemente a livello glomerulare, ed in misura minore anche a livello tubulare, interstiziale ed arteriolare, in assenza di manifestazioni cliniche o di anomalie biochimiche ematiche o urinarie. In questa fase, i pazienti con diabete di tipo 1 presentano normale albuminuria, normali valori pressori e velocità di filtrazione glomerulare normale o aumentata. Invece, al momento della diagnosi, circa la metà dei pazienti diabetici di tipo 2 presenta ipertensione
arteriosa (31), circa il 10% microalbuminuria, e una piccola quota di pazienti proteinuria franca.
Lo stadio successivo si caratterizza per la comparsa di microalbuminuria (nefropatia incipiente). Nel diabete di tipo 1, la microalbuminuria compare dopo circa 10-15 anni di malattia. Durante questo stadio si assiste ad un lieve e progressivo incremento dei valori pressori nei pazienti con diabete di tipo 1, mentre nel diabete di tipo 2 l'ipertensione arteriosa è presente nell'80% dei casi. Dallo stadio di microalbuminuria una percentuale variabile dal 40 all'80% dei pazienti con diabete di tipo 1 progredisce verso la nefropatia clinica nell'arco di 10 anni, mentre la percentuale di pazienti con diabete di tipo 2 che sviluppa proteinuria sembra inferiore (pari a circa il 40%).
Lo stadio successivo della nefropatia clinica è caratterizzato da proteinuria persistente, ipertensione arteriosa e incremento graduale di azotemia e creatininemia, associati ad un declino progressivo della velocità di filtrazione glomerulare. Tale stadio si manifesta nel diabete di tipo 1 dopo 10-20 anni di malattia e si conclude pressoché invariabilmente con l'insufficienza renale terminale. Nel paziente diabetico, la terapia sostitutiva andrebbe avviata con valori di clearance della creatinina intorno a 10-15 ml/min, soprattutto in soggetti con ipertensione arteriosa intrattabile e/o edemi massivi e al manifestarsi dei sintomi dell'uremia; tale approccio è raccomandabile specialmente in soggetti anziani. con elevato rischio cardiovascolare.
Il trapianto renale e il trapianto
combinato rene-pancreas rappresentano attualmente una valida opzione nel paziente diabetico con ESRD, con percentuali di sopravvivenza del paziente e dell'organo trapiantato assai vicine a quelle dei pazienti non diabetici, allorché si attui una corretta ed esauriente valuta-
zione pre-trapianto dei pazienti. Inoltre, il trapianto renale ha dimostrato un impatto favorevole su alcune complicanze della malattia diabetica, quali la neuropatia, mentre dibattuti sono gli effetti sulla progressione della macroangiopatia e della retinopatia (32). Ciò nonostante, la percentuale dei diabetici in ESRD sottoposta a trapianto è alquanto limitata: nel 1995, solo il 3.6% dei pazienti italiani trapiantati di rene era affetta da diabete mellito. Pertanto, andrebbe incoraggiato il precoce inserimento dei pazienti diabetici con insufficienza renale terminale in programmi di trapianto, che sono in grado di garantire un netto incremento dell'aspettativa di vita, oltre ad un miglioramento della qualità della vita, rispetto ai pazienti uremici in trattamento sostitutivo.
Prevenzione
– Prevenzione primaria. Allo stato attuale, non è possibile identificare i pazienti diabetici ad elevato rischio di nefropatia, prima della comparsa della microalbuminuria, tuttavia, è stata dimostrata l'importanza di alcuni fattori di rischio, quali l'insoddisfacente controllo metabolico, la familiarità per nefropatie, per ipertensione arteriosa e per malattia cardiovascolare precoce. Per tale ragione, la prevenzione primaria del danno renale va rivolta a tutta la popolazione diabetica (33). In questo contesto, l'obiettivo primario è il conseguimento di un adeguato controllo glicemico, definito da valori di emoglobina glicata non superiori al 7% (range di normalità: 4.0-6.0%), come dimostrato sia nel diabete di tipo 1 (DCCT) (10) che nel diabete di tipo 2 (UKPDS) (20). Anche se il mantenimento di un controllo glicemico ottimale è sicuramente un obiettivo difficile, soprattutto nel lungo termine, i risultati degli studi clinici ci impongono il massimo impegno per il suo perseguimento.
Di pari importanza è il buon control-
lo pressorio, con l'obiettivo di ottenere
valori di pressione arteriosa < 130/85 mmHg (nei soggetti < 50 anni l'obiettivo ottimale andrebbe posto intorno a 120/75 mmHg), privilegiando la terapia con ACE-inibitori, per il loro effetto renoprotettivo. (34 36).
La prima dimostrazione dell'effetto renoprotettivo della inibizione farmacologica dell'Angiotensina II è venuta da esperimenti in ratti sottoposti a nefrectomia unilaterale e rimozione di 5/6 del parenchima controlaterale, un intervento che induce iperfiltrazione, ipertensione glomerulare, glomerulosclerosi ed insufficienza renale progressiva. In quel modello, la inibizione della produzione di Angiotensina II tramite enalapril ha normalizzato la pressione glomerulare attraverso la preferenziale dilatazione della arteriola efferente, oltre a prevenire la comparsa di proteinuria e glomerulosclerosi. Tanto in quel modello come in ratti diabetici, studi di comparazione fra enalapril e terapia antiipertensiva a base di reserpina, idralazina, idroclorotiazide hanno dimostrato la peculiarità di quell'effetto farmacologico, e risultati analoghi sono stati ottenuti in ratti diabetici. Le potenzialità terapeutiche della inibizione farmacologiche dell'Angiotensina II tramite ACE Inibitori non sono esclusivamente emodinamiche poiché l'Angiotensina II riduce la selettività del filtro glomerulare, accelera la proliferazione di cellule mesangiali e l'espressione del TGF-b, una citochina profibrotica. Stimolando la produzione locale di inibitore dell'attivatore del plasminogeno (plasminogen activator inhibitor-1, PAI-1), essa impedisce anche il degrado della matrice extracellulare prodotto da metalloproteinasi plasmina-attivabili, concorre alla infiammazione associata al danno renale cronico e stimola la produzione surrenalica di aldosterone, un ormone nefrolesivo almeno in alcuni modelli animali con insufficienza renale progressiva. La presenza di tutti i componenti del sistema
renina-angiotensina all'interno del rene consente poi l'accelerazione del danno renale per via paracrina ed autocrina.
È tuttavia interessante notare che il trattamento con ACE-inibitori non abbia ridotto in modo significativo l'incidenza di microalbuminuria in diabetici normoalbuminurici all'inizio del follow-up.
Studi recenti suggeriscono un buon effetto renoprotettivo una riduzione della proteinuria da parte dei Ca-antagonisti a lunga durata d'azione, soprattutto i non-diidropiridinici. Pertanto, qualora necessario al raggiungimento del controllo pressorio ottimale, i Ca-antagonisti sono i farmaci da associare agli ACE-inibitori.
– Prevenzione secondaria. La prevenzione secondaria si pone l'obiettivo di rallentare o di arrestare la progressione dalla microalla macroalbuminuria. E' essenziale il conseguimento di un controllo glicemico e pressorio ottimale e l'utilizzo di ACE-inibitori o sartani (ARB), con gli stessi obiettivi proposti per la prevenzione primaria (37).
– Prevenzione terziaria. La prevenzione terziaria si propone di rallentare o di arrestare la progressione dalla nefropatia clinica alla insufficienza renale terminale. In tale fase è essenziale il controllo accurato della pressione arteriosa, come del resto in tutte le nefropatie di qualsiasi origine. In presenza di nefropatia clinica, l'ipertensione è il più importante fattore determinante la progressione della proteinuria, la riduzione della filtrazione glomerulare (GFR) e l'evoluzione verso l'insufficienza renale terminale. In soggetti con diabete di tipo 1 e 2 e nefropatia conclamata, il trattamento antiipertensivo è risultato rallentare il declino del GFR, indipendentemente dai farmaci anti-ipertensivi utilizzati. Da ricordare inoltre l'importanza del monitoraggio degli elettroliti e dei parametri di funzionalità renale ogni qual volta venga iniziata terapia con ACE-inibitore nei pazienti con insufficienza renale anche lieve. Anche se
non esistono studi prospettici sull'efficacia del buon controllo metabolico in questo stadio, alcuni studi dimostrano una relazione tra valori di emoglobina glicata e riduzione della velocità di filtrazione glomerulare. Pertanto, anche in questo stadio, si raccomanda il raggiungimento di un buon controllo glicemico. Diversi studi sperimentali e clinici suggeriscono che l'ipercolesterolemia rappresenta un ulteriore fattore di rischio per la progressione del danno renale. Anche se mancano evidenze conclusive in tal senso, la terapia ipolipemizzante va comunque raccomandata per la prevenzione della malattia cardiovascolare, aggravata dalla coesistenza di insufficienza renale (38).
Il ruolo della dieta ipoproteica nel rallentare la progressione del danno renale, nel paziente diabetico non è stato chiaramente dimostrato. È consigliabile comunque una modesta restrizione dell'apporto proteico, intorno a 0.8-0.9 g/kg/die, dando la preferenza alle proteine vegetali ed al pesce, nel paziente diabetico con nefropatia clinica o con insufficienza renale. È essenziale inoltre la sospensione del fumo, che si è dimostrato un fattore di progressione del danno renale, sia nei pazienti con diabete di tipo 1 che di tipo
2. Infine, non vanno trascurate le raccomandazioni generali, quali la terapia delle infezioni urinarie, spesso recidivanti, e l'attenzione nell'uso di FANS e di mezzi di contrasto nella diagnostica per immagini, da limitarsi alle condizioni di assoluta necessità e previa idonea preparazione.
polineuRopatia
La neuropatia diabetica è probabilmente la più frequente complicanza del diabete sia di tipo 1 che di tipo 2. La sua prevalenza è del 50% nei diabetici da più di 25 anni considerando sia la forma clinica conclamata che quella subclinica. La frequenza è simile sia nei diabetici di tipo 1 che in quelli di tipo 2 e la complicanza si manifesta soprattutto dopo 10-20 anni
dal riscontro di iperglicemia, mentre è rara durante i primi anni di malattia. (Tale argomento verrà trattato in modo dettagliato nel capitolo specifico).
Complicanze macrovascolari
Minore è l'evidenza di correlazione tra espressione di interessamento dei grossi vasi e la durata della malattia dei livelli glicemici. La concomitanza di altri fattori di rischio, fumo di sigaretta, ipertensione, dislipidemia e proteinuria assume in questo caso maggiore importanza (24) soprattutto nel diabete di tipo 2 (25).
L'ipertensione arteriosa è 2 volte più frequente nei diabetici di tipo 2 e di età superiore ai 45 anni, rispetto ai soggetti di controllo; inoltre nel diabetico è in correlazione positiva con l'aterosclerosi in maniera più evidente che nel non diabetico. Nel diabete di tipo 1, in cui è più frequente la nefropatia, l'ipertensione aumenta la proteinuria e favorisce quindi la progressione della malattia renale. L'obesità è associata al diabete di tipo 2 ed insieme agli altri fattori di rischio: l'iperlipidemia, l'ipertensione e l'insulino-resistenza, configura il quadro della sindrome metabolica, entità nosografia caratterizzata dalla coesistenza di uno o più fattori di rischio. La sindrome metabolica sta diventando uno dei maggiori fattori di rischio per la malattia aterotrombotica. Questa importanza è evidenziata dal suo inserimento nelle linee guida del National Cholesterol Education Program Adult Treatment Panel III (ATP III) (39).
CaRdiopatia isChemiCa
Sia il diabete di tipo 1 che di tipo 2 rappresentano fattori di rischio indipendenti per cardiopatia ischemica. L'incidenza di coronaropatia è mediamente 3 volte superiore rispetto alla popolazione sana anche di sesso femminile nella quale è perso l'effetto protettivo premenopausale (23-25). Al momento della diagnosi è spesso presente un interessa-
mento multivascolare. Frequentemente l'espressione clinica è paucisintomatica (23). Allo scopo di identificare la presenza di malattia cardiovascolare (CHD) nei pazienti diabetici che non presentino sintomi chiari o suggestivi per coronaropatia (CAD), è consigliato un approccio basato sui fattori di rischio, rappresentati da: dislipidemia, ipertensione arteriosa, fumo, anamnesi positiva per malattia coronarica prematura e presenza di microo macroalbuminuria. La Cardiopatia ischemica, anche se non differisce nelle sue manifestazioni cliniche da quella dei non diabetici, mostra un a prognosi peggiore. Nei diabetici, infatti, la mortalità dovuta ad infarto del miocardio è del 31% rispetto al 19% della popolazione non diabetica e, inoltre, la prognosi è più infausta nel sesso femminile che in quello maschile. L'intervento di by-pass aorto-coronarico presenta una mortalità maggiore nei diabetici che nella popolazione generale (9% rispetto al 4%) e la sopravvivenza a lungo termine è minore. Anche lo scompenso congestizio risulta statisticamente più frequente nei diabetici e nelle donne diabetiche in cui è due volte più frequente che nelle non diabetiche. La presenza del diabete ha aumentato il rischio di CHD in entrambi i sessi. Si stima che il 60-65% delle persone con diabete siano ipertese. L'ipertensione può condizionare l'evoluzione delle complicanze a livello renale e retinico, aggravandole ulteriormente. Data la particolare aggressività della malattia aterosclerotica i livelli della pressione arteriosa nelle persone con diabete devono essere quanto prima possibile tenuti nell'ambito dei valori fisiologici.
aRteRiopatia obliteRante peRifeRiCa
L'interessamento aterosclerotico dei vasi periferici nel diabetico è frequente e tende a coinvolgere soprattutto i vasi distali di gamba. È una complicanza abbastanza frequente (circa il 21% dei pa-
zienti ha una vasculopatia periferica alla diagnosi di diabete (42) ma la diagnosi è spesso tardiva data l'assenza in molte occasioni del sintomo tipico e cioè la claudicatio, che in presenza di neuropatia periferica, non si rende manifesta. Lo screening iniziale per la vasculopatia periferica (PAD) dovrebbe includere una valutazione anamnestica per la claudicatio e la valutazione dei polsi pedidi e tibiali posteriori. In considerazione del fatto che molti dei pazienti con PAD sono asintomatici, può essere indicata la valutazione dell'indice caviglia-braccio (ABI o IW). Le persone con sintomi di claudicatio o con ABI <0.9 dovrebbero essere sottoposte ad ulteriore studio vascolare ed essere indirizzati all'esercizio fisico, ai farmaci o alle idonee opzioni chirurgiche (41).
Lo scarso controllo metabolico evidenziato da elevati livelli di emoglobina glicosilata (HbA1c), si associa ad un aumento del rischio di vasculopatia periferica. Da uno studio è stato rilevato che, su 1.894 adulti diabetici di mezza età, il rischio di ricovero in ospedale per vasculopatia periferica aumentava con l'aumentare dei terzili dei livelli di HbA1c, come il rischio di claudicatio intermittens, dovuta ad un dolore crampiforme alle gambe che si manifesta nei pazienti con vasculopatia periferica (PAD). I risultati, piu' precisamente, indicano che i pazienti che rientravano nel secondo e nel terzo terzile dei livelli di HbA1c, avevano maggiori probabilità (rispettivamente pari al 53% e al 64%) di essere affetti da vasculopatia periferica, rispetto ai pazienti con i minori livelli di emoglobina glicosilata. (42). Questa associazione è risultata particolarmente stretta nelle manifestazioni sintomatiche della PAD più gravi, caratterizzate da claudicatio intermittens e ricovero in ospedale.(43)
VasCulopatia CeRebRale
Il rischio di stroke è aumentato di 3 volte nel diabetico ed è indipendente dalla durata della malattia, la mortalità è più elevata e le prospettive di ripresa senza conseguenze invalidanti meno probabili (24). Si rileva frequentemente il coinvolgimento delle carotidi che possono presentare estese placche stenosanti, ma è anche frequente l'interessamento delle piccole arterie penetranti paramediane. La manifestazione clinica è di una certa rilevanza, in genere circa il 13% dei pazienti diabetici di età maggiore dei 65 anni ha avuto uno stroke (23)
Conclusioni
L'elevato costo sociale e sanitario del diabete e delle sue complicanze vascolari, ha condotto all'attuazione di diversi studi epidemiologici internazionali su larga scala e di lunga durata che si sono occupati di valutare gli effetti di diversi tipi di intervento farmacologico sulle complicanze stesse: il Diabetes Control e Complications Trial (DCCT) (10) per il diabete tipo 1 e l'United Kingdom Prospective Diabetes Study (UKPDS) per il tipo 2. (20). Entrambi hanno evidenziato la necessità di raggiungere un buon controllo metabolico al fine di ridurre il rischio di complicanze vascolari. In ogni caso la complessità del quadro clinico del paziente diabetico, impone la necessità di pianificare un'assistenza orientata su più fronti, che prenda in considerazione non solo il quadro metabolico, ma anche tutti gli altri aspetti clinici della malattia, soprattutto quando questa è gravata dalla presenza delle complicanze croniche.